La scienza espressa
di Alessio Ricci

Le dodici notti d’Oriente

Capolavoro tattico israeliano. Si potrebbe descrivere semplicemente così, senza tralasciare nulla, quello che è avvenuto in questi dodici giorni.

Dopo la Guerra dei sei giorni del 1967, cinquantotto anni dopo abbiamo assistito in Medioriente a una riproposizione di una guerra relativamente corta, ma diametralmente diversa, questa volta senza chiari vincitori (né vinti) sul campo, dove tutti i soggetti si trovano tutto sommato soddisfatti per come si stavano mettendo le cose, ma con un forte amaro in bocca per i propri obiettivi rinviati, e dove in qualche Israele ne esce meglio, o meno peggio. Guerra, peraltro, durata tredici giorni e non dodici.

La linea rossa, secondo dizione israeliana, che non poteva e non può essere superata, è il raggiungimento e il possesso da parte persiana della bomba atomica. Ovviamente, tale condizione non è osteggiata solo verso l’Iran, nel 1981 anche gli impianti iracheni vennero bombardati (soprattutto quello di Osirak), quando era l’Iraq “di Suddam Hussein”, ovvero un Iraq governato dalla minoranza sciita e antipersiana, a fare più paura.

L’obiettivo di Netanyahu e dei suoi ministri era chiaro: obliterare le velleità nucleari persiane, limare i gravi contrasti interni unificando la popolazione verso un grande nemico esterno e spostare l’attenzione da Gaza.

Per Israele è una questione esistenziale mantenere un vantaggio tattico sull’Iran con l’atomica: infatti per qualsiasi nazione con aspirazioni di grandezza (almeno regionale) inserirsi nel novero dei paesi dotati di ordigni nucleari è un passo pressoché obbligato per proiettare e declinare potenza e, ugualmente, in funzione di deterrenza contro gli altri possessori di tale arma, poiché se attaccati potrebbero rispondere in maniera simmetrica. In maniera molto semplice, in questo momento Israele possiede tali bombe (grazie all’aiuto francese, e situate in sottomarini di fabbricazione tedesca, i quali continuamente si muovono nel Mediterraneo), l’Iran no. Non sarebbe un gran vivere sapere che il paese che ha in una delle piazze principali della sua capitale (Piazza Palestina, non casualmente) un orologio con il countdown alla distruzione del tuo paese e all’annichilimento totale del tuo popolo fissato per il 2040. Per Israele è funzionale e necessario mantenere questo grande vantaggio che ovviamente fa il paio con lo strapotere tecnologico e la superiorità dell’aviazione, anche perché l’Iran è davvero un gigante demografico, con una popolazione di almeno 80 milioni di persone, e un’età mediana di soli 30 anni. Utile ricordare di “Stuxnet”, il virus con il quale nel 2010 le intelligence israeliane e americane danneggiarono pesantemente l’impianto di Natanz.

In questi quindici anni non è cambiato l’obiettivo, sono cambiati gli strumenti.

Parimenti, per l’Iran è fondamentale averla. Per pareggiare i conti con il suo rivale “temporaneo”, ma soprattutto per porsi in una situazione dominante rispetto i rivali eterni, arabi e turchi, ridando anche forza e vigore ad alleati e proxy in questa fase molto declinanti (Hamas, Hezbollah, Houthi), o addirittura neutralizzati (l’ex regime damasceno).

Gli Stati Uniti sono stati tirati per la giacchetta, e alla fine hanno accettato il gioco israeliano.

In principio e a livello teorico, l’attacco militare di USA-Israele era probabile se l’Iran si fosse trovato a un passo dalla bomba atomica, proprio per impedire che la raggiungesse. Ovviamente è tutto da capire e stabilire quanto sia lungo questo passo, in nuce è molto difficile capire la soglia ultima prima dell’intervento. L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA), che non conta nulla poiché ovviamente le potenze regolano da sé le questioni di sopravvivenza, il 12 giugno dichiara che per la prima volta l’Iran non aveva rispettato gli standard previsti dal trattato di non-proliferazione, con un accumulo di uranio arricchito almeno al 60%. Parallelamente, le intelligence israeliana e americana (soprattutto) percepiscono un sempre maggiore stadio di avanzamento, e una significativa progressione nell’obiettivo iraniano. L’inizio dell’attacco israeliano, quindi, si inserisce esattamente in maniera preventiva a questa fase. Qualche secolo fa, avremmo parlato di casus belli.

Da parte statunitense, per i vari dipartimenti di Stato, che non cambiano dopo le elezioni, se non con poche figure apicali attraverso lo “spoil system” (“sistema delle spoglie” in fiorentino), dove però i vecchi dirigenti sono spesso riassunti come consulenti o “contractor”, la linea rossa è la medesima, e di fatto è stata messa la Presidenza nella condizione di accettare e dare il via ai bombardamenti al sito sotterraneo di Fordow, dando prova della propria eccellenza tecnologica e militare, con una delle specialità di Washington: il “target bombing” (ne parleremo approfonditamente nei prossimi articoli della rubrica).

Gli apparati americani, sui dossier internazionali, si muovono liberamente, soprattutto in difesa degli interessi nazionali. A riprova della ritrosia di Trump a tale azione, sono le dichiarazioni effettuate il giorno prima in cui si “concedevano” all’Iran quattordici giorni per giungere a un accordo diplomatico. Tuttavia, come abbiamo specificato nelle puntate precedenti, il Presidente degli Stati Uniti (chiunque sia) non ha poteri assoluti, tutt’altro; spesso e volentieri, nella nostra dizione, confondiamo il prestigio dell’essere a capo del maggiore impero esistente con il potere che una singola persona non possiede. Gli Stati Uniti sono un impero, ma Trump non è un imperatore (né prima Biden, Obama, Bush, etc.), giusto per ribadirlo una volta per tutte.

Tornando alla cronistoria, gli attacchi israeliani (coadiuvati dall’intelligence americana) iniziano nella notte tra il 12 e il 13 giugno con l’operazione “Am KelaVi”, ovvero “Leoni Nascenti” (o risorti, rinascenti). Nota non casuale: fino al 1979 il simbolo al centro della bandiera dell’Iran era proprio il leone con dietro il Sole nascente. Inizia così una guerra aerea e balistica vera e propria a cui l’Iran risponde in maniera massiccia contro le principali città nemiche. Sin dalla notte del primo attacco “preventivo”, l’Israeli Air Force conquista una certa superiorità aerea e il controllo dei cieli persiani, soprattutto in quella “autostrada aerea” diretta a Teheran, tramite duecento aerei (F-35 la maggior parte) e più di trecento missioni su target iraniani, tra i quali il centro di arricchimento dell’uranio di Natanz. Ugualmente, sono stati colpiti e uccisi alcune figure apicali della leadership militare e scientifica iraniana (oltre settanta), come il comandante Salami e gli ingegneri Abbasi e Tehranchi.

Tuttavia, l’importantissimo e oramai famigerato impianto di Fordow, che si trova all’interno di una montagna, rimane inattaccabile per l’aviazione israeliana. Questo limite fisico pregiudicherebbe in maniera significativa la riuscita e lo scopo di questo attacco, è evidente.

Benjamin Netanyahu chiede da subito un aiuto alla Presidenza degli Stati Uniti, conscio del fatto che solo il prezioso alleato possiede la tecnologia militare e soprattutto le “GBU-57”, ovvero le “buster bunker”, gli unici ordigni al mondo in grado di penetrare fino a 60 metri nel sottosuolo fino a esplodere. Sono bombe enormi (fisicamente) ed estremamente pesanti (ognuna pesa quattordici tonnellate), e l’unico aereo dell’aviazione americana che può trasportarle è il bombardiere Stealth B-2 Spirit.

Questa situazione ha generato quello che alcune testate americane hanno chiamato il “Paradosso di Fordow”, da una parte c’era un paese (Israele) con la volontà politica e militare di distruggere quell’impianto, ma senza la possibilità tecnologica di farlo; dall’altra (gli USA) con le capacità tecniche di colpire l’impianto ma senza la necessaria volontà politica di volerlo fare. Perché, se è vero che anche per gli americani l’atomica persiana è una linea rossa, tuttavia da anni l’approccio è stato orientato al negoziato, e tutto vogliono gli americani tranne che cadere e impelagarsi nell’ennesima guerra in Medioriente. Alla fine, sono stati trascinati negli eventi e il fatto era pressoché compito, con Israele già dentro la guerra e con i cieli persiani nelle loro mani.

Tuttavia, questa sorta di cortocircuito ha generato un ritardo di diversi giorni, circa nove, fino al 23 giugno quando è partita l’Operazione “Midnight Hammer” (“Martello di Mezzanotte”, meno lirico della corrispettiva israeliana). Il target era ambizioso: colpire e mettere fuorigioco in maniera significativa l’impianto di Fordow (parimenti sono stati colpiti anche quelli di Natanz e Isfahan). La mancanza di dati certi, dovuti alla difficoltà di valutazione di un obiettivo situato sottoterra, ha richiesto diversi bombardamenti nello stesso punto. Difficile valutare oggettivamente da qui, ma risulta verosimile la versione delle agenzie americane secondo le quali i bombardamenti americani di quella notte, unitamente ai molteplici raid israeliani negli altri impianti nei giorni precedenti, abbiano ritardato e rinviato di uno o due anni l’approdo al nucleare per l’Iran; tuttavia, il ritardo americano volente o nolente ha sicuramente permesso per l’Iran di “salvare il salvabile”, e probabilmente di portare al sicuro e in segreto l’uranio a disposizione. La riprova è sicuramente la risposta non rabbiosa e letteralmente telefonata dell’Iran verso gli Stati Uniti.

Per Israele tutto sommato l’obiettivo è temporaneamente raggiunto, ha dato una grandissima prova di forza militare e aerea, umiliando e riducendo ai minimi termini l’aviazione nemica. Persino sauditi ed emirati sono accorsi in loro aiuto per intercettare i lanci iraniani. E poi, l’ulteriore umiliazione arrecata ai nemici, con il lancio dei droni direttamente da una base segreta in Iran.

Ma se tatticamente può essere considerata una vittoria, non lo è (ancora) strategicamente.

Infatti, l’Iran rimane in piedi, il suo regime pure (anche se in verità un po’ ha traballato), il suo piano per il nucleare è rinviato ma non è morto. Tuttavia, appare fortemente ridimensionato tatticamente: alleati, aviazione, danni, morale, etc. Come scritto in precedenza in Matrice Geopolitica, un cambio di regime, seppur possibile, non porterebbe a un regime “amico” dell’Occidente (che poi, sia chiaro, Israele non è un paese occidentale, ne parleremo presto).

Quali scenari futuri? Così come la bella Sherazade ne Le mille e una notte, l’epilogo drammatico è rinviato di giorno in giorno, o quasi. Lo status quo venutosi a creare indicherebbe una relativa distensione degli attacchi diretti da ambo le parti, ma l’impressione che si ha è che lo scontro sia solo rinviato.

Alessio Ricci

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